Gli errori dell’Occidente e una generazione cresciuta in guerra.

Abu Ghraib ha cambiato tutto. E la tortura continua ad alimentare la potenzialità di maggiori radicalizzazioni. Intervista con l’ex agente dell'Fbi
L’undici settembre del 2001 Ali Soufan era l’unico agente dell’Fbi a New York che parlasse arabo.

Americano di origini libanesi, ha indagato nelle aree più problematiche del mondo: nel 1999 in Giordania, scoprì una scatola di documenti consegnata dai funzionari dei servizi segreti giordani alla Cia e abbandonata in una stanza, la scatola conteneva mappe e informazioni dettagliate sugli attacchi del Jordan Millennium Bombing, nel 2000 è stato nominato capo investigatore dell’attentato alla Uss Cole, il cacciatorpediniere statunitense che era ormeggiato nel porto di Aden, nello Yemen meridionale, quando una piccola imbarcazione si avvicinò ed esplose. Era in Yemen quando interrogò Abu Jandal, la guardia del corpo di Bin Laden, che rivelò i nomi di molti affiliati e membri qaedisti.

Soufan era noto tra gli agenti del Bureau per le sue tecniche di interrogatorio: colto e sensibile, amante della poesia, attento a mettere a proprio agio i prigionieri, dimostrare loro rispetto delle tradizioni e la conoscenza dei testi sacri. Sedeva a terra con i prigionieri, beveva con loro tè e caffè. Nel 2006, in un saggio monografico che gli ha dedicato Lawrence Wright del New Yorker, è stato descritto come l’agente che più di chiunque altro avrebbe potuto sventare gli attacchi dell’11 settembre, se la Cia avesse condiviso decisive informazioni con lui (la storia è diventata anche una serie tv di grande successo “The Looming Tower ” visibile su Amazon Prime Video).


Nel marzo 2002, fu il primo ad interrogare Abu Zubaydah, che in quel momento era considerato il più importante prigioniero di Al-Qaeda detenuto dagli americani, attraverso le sue conoscenze linguistiche e la sua competenza era in grado di raccogliere informazioni essenziali da Abu Zubaydah, tuttavia la Cia scelse proprio lui come primo prigioniero su cui testare le sue “tecniche avanzate di interrogatorio” cioè le torture.

Zubaydah subì il waterboarding 83 volte. Soufan lasciò Guantanamo nell’estate del 2002, e si dimise dall’Fbi nel 2005, dopo aver pubblicamente criticato i comportamenti della Cia. Ha sempre dichiarato di essere stato angosciato per anni al pensiero che se non ci fosse stato quel muro di omertà e competizione tra le due agenzie di intelligence, gli attentati al World Trade Center forse avrebbero potuto essere evitati. Soufan oggi è il Ceo del Soufan Group, fornisce servizi strategici di intelligence di sicurezza a governi e organizzazioni multinazionali.
In questo colloquio con L’Espresso racconta la sua visione delle indagini antiterrorismo e le preoccupazioni sul futuro del fondamentalismo islamico.

«Il Califfato probabilmente non esiste più sul terreno», spiega, «ma io penso che la minaccia terroristica e la minaccia ideologica siano profondamente radicate in dimensioni diverse: culturali, sociali, economiche, settarie. Sono mutate le cose dai tempi dell’Afghanistan, o di Bin Laden in Sudan, e poi di nuovo dopo gli attentati dell’11/9. La dinamica della minaccia è cambiata completamente, è passata dall’essere una organizzazione al divenire un messaggio. E l’Isis è un frutto di queste mutazioni. Penso che la minaccia cambierà di nuovo, le condizioni che hanno consentito all’Isis di muovere i primi passi e poi radicarsi sfortunatamente esistono ancora oggi. Basti pensare al destino delle comunità sunnite in Iraq».

Quello che colpisce in questi anni di guerre contro Isis è che ci sia stato una sorta di ordine non scritto contro i miliziani di Al Baghdadi, cioè: Kill them all, uccidiamoli tutti. In queste guerre abbiamo assistito a un uso spregiudicato della forza e all’assenza di pietà verso i combattenti e le loro famiglie. Com’è cambiata la lotta al terrorismo in questi anni? Ha la sensazione che sia diminuita la condanna delle esecuzioni arbitrarie, gli arresti indiscriminati?
«I conflitti a cui stiamo assistendo hanno un volto molto cupo: nelle guerre in cui subentrano le lotte tribali e gli scontri settari, non si ha pietà dei nemici. Sono guerre assolutiste, che portano a giustificare le esecuzioni. È quello cui stiamo assistendo nelle battaglie contro l’Isis e a cui temo continueremo ad assistere per molto tempo. L’Isis d’altronde ha fatto lo stesso con i suoi oppositori: vendicarsi. E non è solo un problema di brutalità dei gruppi terroristici, guardi cosa stanno facendo i sauditi in Yemen. Ci sono milioni di bambini sotto assedio, bambini morti di fame, o perché non hanno accesso a cure mediche. Questo dà un’idea di come le potenze regionali in Medio Oriente stiano cercando di imporsi e vincere le loro guerre. O la Siria, abbiamo appena assistito all’attacco chimico a Douma, e prima a Khain Seikhun e ad altri attacchi precedenti. In Siria sono state uccise più di 500 mila persone, sono passati sette anni e non si vede un argine alla violenza. La guerra è sempre disgustosa, ma lo è di più quando i combattimenti sono senza regole. I governi occidentali non hanno saputo imporre una via diplomatica e politica per arrestare questa deriva e spesso abbiamo agito più per alimentare che per contenere. E questo ha finito per infuocare situazioni già difficili. È accaduto in Iraq, in Yemen, in Siria. Molto di quello che è accaduto n Iraq non sarebbe avvenuto senza l’invasione americana del 2003».

Ha citato l’invasione americana del 2003. Il pensiero va alla prigione di Abu Ghraib. Lei ha preso posizioni coraggiose contro le tecniche di tortura durante gli interrogatori, definendole inefficaci. Ha l’impressione che rispetto a 15 anni fa, oggi l’opinione pubblica provi meno indignazione, tenda a giustificare di più le torture? L’emergenza sicurezza ha prodotto questo?
«Non dobbiamo dimenticare che parte dei problemi che abbiamo oggi sono stati determinati dalle torture perpetrate nelle carceri americane, molti dei capi di al Qaeda erano stati torturati nelle carceri egiziane, le prigioni del passato sono i luoghi in cui si sono alimentati i gruppi estremisti. Le immagini di Abu Ghraib hanno letteralmente mutato le dinamiche della guerra irachena, molte persone da ogni parte del mondo si sono unite alla guerra in Iraq quando la prima vera ondata di foreign fighters ha cominciato a partire, molti terroristi, incluso il terrorista di Charlie Ebdo a Parigi, hanno in seguito confessato come una delle ragioni per cui si sono uniti ad al Qaeda o Isis siano state le immagini di Abu Ghraib. Questo è un punto delicato: le persone sarebbero interessate se il governo italiano o il governo inglese o quello statunitense fossero responsabili di tali comportamenti, ma non lo sono più, ci sono i locali. I media occidentali non hanno nessun interesse nel coprire e raccontare quello che succede nelle carceri irachene o siriane per esempio. Pensano: non siamo lì, non ci riguarda. Il punto però è che la tortura continua ad aumentare la potenzialità di maggiori radicalizzazioni future. È un circolo vizioso, funziona così. Si tollera la tortura per arginare il pericolo e il pericolo torna indietro. Perché? È una reazione da manuale. È una reazione che il nemico spera che tu abbia. È terrorismo: non si tratta solo di uccidere qualcuno, terrorismo è anche provocare una reazione. E penso che dopo gli attentati dell’11 settembre, il terrorismo stia parzialmente vincendo. Per lo stesso motivo per cui 400 membri di al Qaeda dopo il 9/11 sono diventati un movimento di migliaia di persone, che va dall’ Africa al Sud Est asiatico: una mancanza di visione a medio e lungo termine».

Si riferisce alla carenza di progetti di deradicalizzazione?
«Mi sembra che non ci sia, ancora una volta, una strategia di lungo termine per il dopo Isis, soprattutto sulle vittime più vulnerabili di questa guerra, donne e bambini. Ora abbiamo di fronte un problema generazionale, i bambini iracheni o in Yemen o in Siria e in altre zone di conflitto: un’intera generazione è cresciuta senza istruzione, vivendo solo violenza. Se vuoi conoscere il futuro del terrorismo devi saper leggere con attenzione cosa sta succedendo oggi. Ci sono milioni di bambini educati alla violenza così anche in Libia, nel Sahel, in Nigeria e questo dà prospettive davvero cupe su quello che sarà il futuro. Quello che stiamo vedendo ora può essere il motore di quel che sarà domani, le ragioni che potranno radicalizzare futuri estremisti».

Il futuro dell’estremismo sono anche i foreign fighters, i returnees ormai, combattenti di ritorno. Ci pongono due problemi. Un problema pratico: la gestione delle informazioni tra intelligence e un problema etico: i paesi di origine non li vogliono indietro. 
«La situazione dei returnees è veramente complicata. È una cosa su cui abbiamo lavorato per anni, quando pensiamo ai foreign fighters dobbiamo fare riferimento a gruppi di persone con caratteristiche molto diverse, non sono tutti uguali. Ci sono persone che hanno scelto l’Isis perché attratti da una ideologia e sul campo hanno verificato che questa violenza e questa radicalizzazione li spaventava e vogliono tornare indietro. E poi ci sono quelli partiti per combattere e dopo la sconfitta vogliono tornare a casa, e sono pericolosi, ma ci sono anche dei foreign fighters cui il califfato ha chiesto di andare a combattere altrove. Abbiamo verificato che molti di coloro che hanno combattuto nelle Filippine contro il governo avevano passaporti sauditi: sono i foreign fighters cui i leader dell’Isis hanno chiesto di destabilizzare altri Paesi. Spostarsi verso altre aree di guerra, approfittare dei Paesi in cui ci sono vuoti di potere, per trarre vantaggio dalle guerre locali, aspettando un nuovo ordine, le nuove strategie. Questi devono preoccuparci molto. Dobbiamo trattare i casi in modo molto diverso e per fare questo, dobbiamo poter monitorare i movimenti, e condividere le informazioni della polizia scientifica con tutta la comunità internazionale. Altrimenti potremmo non sapere mai se c’è un foreign fighter italiano, per esempio, che vuole tornare indietro per una delle ragioni menzionate prima e se era solo un cuoco o se aveva ruoli apicali o se ha compiuto crimini ed esecuzioni. Una volta a casa, nessuno di loro ammette di essere stato un combattente, tutti improvvisamente diventano cuochi, ad ascoltare i foreign fighters di ritorno apparentemente l’Isis non ha avuto combattenti, erano tutti cuochi. Chiaramente è una menzogna. Ma non bisogna improvvisare politiche inutili. In Francia, Belgio, Gran Bretagna, i foreign fighters sono problemi reali, quotidiani. I returnees potrebbero creare un problema peggiore di quello che abbiamo avuto dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan: la minaccia è iniziata dalle persone partite per combattere contro i russi ed è terminata su un volo contro il World Trade Center. La situazione nel futuro sarà più pericolosa di allora, per la facilità delle comunicazioni, e perché questi combattenti hanno una esperienza comune di combattimento in Iraq e Siria. Hanno una storia come comunità.

In più ora hanno un collante ulteriore, una storia di condivisione delle carceri. Recentemente in Iraq ho incontrato un giovane, sedicenne, detenuto ingiustamente per nove mesi perché sospettato di essere di Isis. Torturato per tre volte, e poi rilasciato. Mi ha raccontato di quanto proselitismo giovanile ci sia già nelle carceri irachene. 
«Le prigioni sono sempre state luogo d’elezione del reclutamento. Usate per fare proselitismo, molti leader di Isis si sono formati a Camp Bucca, nel sud dell’Iraq, con al Baghdadi. Sono anni che proviamo a portare l’attenzione dei governi sul tema delicato del reclutamento in prigione, e se questo avviene nelle prigioni del Regno Unito o degli Stati Uniti, immagini cosa possa accadere ora in Iraq o in un capannone in Siria con 300 detenuti in ogni cella. Puoi mettere qualcuno in prigione, ma non puoi mettere in prigione le loro ideologie e il loro immaginario. Non abbiamo ancora delle linee guida su come arginare il reclutamento in carcere, nonostante gli avvertimenti e le testimonianze del passato. E ora abbiamo una nuova generazione in Siria, Libia, Yemen, Iraq, Nigeria. Non solo i figli dei miliziani che sono una minoranza, ma ragazzini cresciuti imbevuti di violenza, senza istruzione. Anche se l’Isis fosse finito, possono essere il terreno fertile di nuovi gruppi estremisti. Saranno i primi obiettivi del futuro terrorismo».

Da espressp.repubblica.it