Il tifo calcistico al tempo del Covid-19 - Il Resto del Carlino, La Città

Per la mia rubrica La vite di Archimede su Il Resto del Carlino, La Città ho chiesto il parere di tre esperti sulla situazione negli stadi e, in particolare, sulla questione del tifo calcistico durante questo periodo di lenta ripresa: Giordano Pierlorenzi, direttore Istituto Europeo di Psicologia e di Ergonomia e di Poliarte - Accademia di Belle Arti e Design di Ancona; la dott.ssa Ilaria Peppoloni, Psicologa Clinica iscritta all’Ordine degli Psicologi della Regione Marche, docente di Fenomenologia e Psicologia della Forma e del Colore presso Poliarte - Accademia di Belle Arti e Design di Ancona; Miriam D’Angelo, Dottoressa in Psicologia Applicata, Clinica e della Salute, collaboratrice in un gruppo di ricerca sul tema del Cyberbullismo, impegnata in un progetto di promozione del benessere.

il tifo calcistico al tempo del covid 19

Il tifo calcistico al tempo del Covid-19

di Giordano Pierlorenzi

‘Incredibile dictu’, incredibile a dirsi!

Oggi il calcio si disputa a porte chiuse e non per penalità, ma per misure sanitarie da coronavirus e il tifo cambia aspetto. La ‘partita senza pubblico’, il ‘tifo extra stadio’, sono voci malinconiche ricorrenti, e così s’ingrossa di nuovi neologismi anglofoni il nostro vocabolario che oltre allo smart working e allo smart learning, ora annovera anche lo smart soccer, il calcio di casa nostra, ovvero la partita seguita attraverso un medium, dispositivo digitale o televisivo.

E nella mediazione tecnologica tra la squadra, il pubblico e il singolo telespettatore a perderci è proprio il tifo, reazione spontanea, collettiva e contagiosa di fronte alle gesta dei propri beniamini. L’ola, la classica manifestazione di giubilo e di incoraggiamento alla squadra insieme con i cori della curva scompare di scena. Si potrebbe dire usando un ossimoro, che il tifo oggi è ‘un’eccitazione calma’, non più un’esaltazione parossistica in presenza di massa sugli spalti, ma una reazione limitata dal mezzo digitale di pochi amici riuniti in casa, al bar o in qualche circolo privato, club associativo dove le troppe interferenze disturbano la partecipazione emotiva e l’empatia. La grande massa si è frantumata, dispersa in piccoli gruppi e con ciò si è indebolito lo spirito di appartenenza, di ‘militanza sportiva’ corroborata dalla trasferta dai segni distintivi della società di appartenenza: colori sociali, striscioni, gagliardetti, prodotti di merchandising ostentati con orgoglio. Ma il ‘tifo digitalizzato’ seppur mutato per intensità e portata semantica, rimane espressione autentica dell’aggressività naturale o fisiologica orientata allo sport, e perciò deve continuare sempre e comunque a svolgere le sue funzioni di deterrenza verso il ribellismo e la devianza di continuo in cerca di nuovi campi dove scaricarsi. Lo sport infatti, sin dai tempi antichi svolge un compito sociale catartico, liberatorio, oserei dire di antistress, prima di educazione e poi di gestione e controllo delle dinamiche e conflitti personali e di gruppo, neutralizzando e convogliando l’energia sovrabbondante del singolo a vocazione violenta nella reazione moderata della collettività: la frangia dei pochi ultras va guidata dalla folla dei fans; i facinorosi dominati dai tifosi.

La storia ci insegna che durante le Olimpiadi nel mondo ellenico si sospendevano le guerre e i soldati si trasformavano in atleti in gara: la competizione sportiva sublima la ‘vis bellica’, conferendo o confermando la cittadinanza, la dignità civile a tutti nella polis. Ma, analizziamo un po’ più a fondo, dal punto di vista della psicologia sociale di massa il fenomeno odierno del tifo e la liturgia della partita che tradizionalmente l’accompagna con modalità pressoché simili in ogni latitudine e civiltà del globo per ciascuna forma di sport collettivo non solo del calcio. Intanto va precisata la differenza tra sportivo, tifoso e ultrà che verte sul grado di fede sportiva: il primo ha un atteggiamento equilibrato ed oggettivo nel vedere e rappresentare lo svolgimento della partita e verso la squadra nutre un sentimento di simpatia; il secondo un po’ più partigiano e stereotipato, è critico e persino talvolta polemico in quanto di parte a prescindere, legato cioè emotivamente alla società; e l’ultrà infine, è chi assegna alla società sportiva e alla propria squadra il primato su tutto, una sorta di valore assoluto. Soffermiamoci ora sul tifo e le variabili che concorrono nel suscitarlo, svilupparlo e mantenerlo costante nel tempo: la tipologia di sport, la partita, il luogo, il contesto scenografico, gli attori, gli spettatori, l’esito atteso, la fede sportiva, la militanza ed il livello partecipativo.

Possiamo definire il tifo -  che l’etimologia greca (thiphos) rimanda come fumo, eccitazione, febbre esaltante -, è un sentimento, un comportamento emotivo costante verso la propria squadra in cui ci si identifica, immedesimandoci nel clima della società e/o in uno o più atleti con cui scatta un feeling, una sim-patia (letteralmente soffrire insieme). Il processo identificativo richiede un’adesione più o meno consapevole ai valori, ai principi ed ai comportamenti del modello di riferimento ovvero in cui ci si riconosce; ecco alcuni esempi di caratterizzazioni a me juventino familiari e classici: la lealtà di Del Piero, l’intraprendenza di Platini, la genialità latina di Sivori e l’aplomb dell’Avvocato per antonomasia. Tale processo dà luogo alla mitizzazione: gli atleti diventano eroi nel nostro immaginario personale e per estensione e contagio imitativo nell’immaginario collettivo dei fans. Da ciò trae origina e si motiva il linguaggio tipico dei tifosi amplificato dai social con cui si fa rete. Le gesta dei giocatori, i loro risultati diventano nostri: ‘abbiamo vinto’, ‘abbiamo sofferto, ma ce l’abbiamo fatta’. L’io dello spettatore e il tu dell’atleta diventano il noi in un abbraccio virtuale ma ciò non di meno pregnante e ‘toccante’. Il tifo in ultima analisi lo assocerei al ‘pathos’, alla sofferenza urlata per necessità sugli spalti ed oggi interdetta, simile a quella provata ma taciuta dallo spettatore della tragedia greca, perché entrambe partecipazione reale, attiva, consensuale. Per capire il vero valore sociale del tifo calcistico mantenuto a livello fisiologico (e non patologico degli estremisti del tipo hooligans) di canalizzazione della aggressività individuale verso il sostegno alla propria squadra nel mantenimento del controllo di sé e del gruppo, è interessante confrontare l’azione del dramma teatrale con quella agonistica. In questa prospettiva lo stadio è il teatro; la partita l’azione scenica, il rito; i giocatori sono gli attori nei diversi ruoli narrativi; il pubblico è rappresentato dagli spettatori (ora telespettatori); l’epilogo è l’assegnazione della vittoria con la sconfitta dell’altra squadra, vittima sacrificale di turno.

I celebranti il rito – arbitri e allenatori – scandiscono l’azione scenica nei tempi e nei modi condizionando il clima generale dei consensi e dissensi. Il contesto è arricchito poi dalle majorettes, controcanto alle prefiche del teatro greco dove però anziché confortare la squadra perdente, rasserena l’atmosfera risaltandone il senso di gioco e di festa e cercando di unire nel vero spirito sportivo tutte le componenti della gara. E’ il richiamo al valore universale della competizione umana che Pierre Decoubertin sintetizza nella celebre frase: “Per ogni individuo, lo sport è una possibile fonte di miglioramento interiore”.

Spalti vuoti: come incidono sulle prestazioni calcistiche?

della dott.ssa Ilaria Peppoloni

La fase tre, avviata dal DPCM dell’11 giugno, ha reso possibile la ripresa di alcuni sport di contatto tra cui il calcio che, in Italia, è sicuramente il più seguito. Dovranno essere rispettati distanziamento ed altre norme sanitarie, ma il vincolo più significativo sta nell’obbligo di disputare le gare a “porte chiuse”. Il rumore del pubblico sugli spalti è in grado di influire positivamente sul comportamento delle squadre in campo, prova ne sia che spesso le squadre ottengono migliori risultati giocando in casa proprio grazie al supporto dei propri tifosi.

L’assenza di questa spinta potrebbe avere risvolti psicologici negativi soprattutto per i giocatori professionisti abituati a stadi gremiti di gente. La mancanza di fischi, cori e perfino insulti che normalmente caratterizzano le partite, potrebbe interferire negativamente anche sulle capacità di concentrazione dell’atleta. La partita in assenza dei suoni che creano l’atmosfera che la caratterizzano potrebbe essere percepita quasi come un allenamento e la mancanza del tifo che “carica” può limitare l’attenzione nel singolo giocatore e nell’intera squadra e di conseguenza anche l’esprimere al meglio il gesto atletico.

Certo, la minore pressione può aiutare i giocatori meno esperti, potranno essere evitati episodi di intolleranza o, addirittura, di violenza ma inevitabilmente l’assenza dei tifosi negli stadi e dell’energia che emanano, sostituita da un silenzio surreale, cambierà la percezione delle partite negli atleti, nelle squadre ed anche negli spettatori.

Il supporto positivo dei genitori nelle attività sportive dei figli

della dott.ssa Miriam D'Angelo

I genitori hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nel fornire stimolo e supporto nello svolgimento delle attività sportive dei propri figli. Oltre ai ragazzi, tuttavia, in campo spesso scendono le aspettative dei genitori che possono favorire l’insorgenza di problematiche che vanno a incidere nella sfera emotiva e nella capacità di autodeterminazione dei propri figli. Con un tifo molto vivace, infatti, possono generare in loro una “pressione psicologica” derivante dalla responsabilità di cui si sentono investiti per l’ottenimento del successo. Un traguardo forse più desiderato dai genitori che vedono nei figli una sorta di riscatto personale. Questo atteggiamento trascura le attitudini dei figli e danneggia il loro sviluppo poiché ogni volta che non saranno sicuri di vincere in una determinata prova non si cimenteranno per paura di fallire. Non c’è dubbio che l’incoraggiamento del famigliare sia fondamentale, ma occorre che lo stesso venga inteso come sostegno finalizzato a garantire l’impegno del figlio nello svolgimento di una determinata attività, a prescindere dai risultati ottenuti, caldeggiando così il senso di autostima che lo porterà ad affrontare le difficoltà del futuro con spirito propositivo.