“Lo stipendio nuoce gravemente alla salute”
Appena visto il libro di Ezio Angelozzi, lo stipendio nuoce gravemente alla salute, ed Arkhé anno 2018, scrutando l’adagio del suo titolo, “Lo stipendio nuoce gravemente alla felicità”, ho avuto un sussulto. Un’immagine che mi si è schiarita man mano che passavano i giorni: mi appariva un libro che parlava di noi. Un noi di ogni giorno. Ovvero di una interiorità che possiamo descrivere come una città sottile. Una città che ci circonda, ci caratterizza ma che non definisce bene i suoi contorni. Non invisibile come la intendeva Calvino, ma che ha dei nomi, stazioni, lavori, treni, taxi e altro. La città dell’autore si fa chiamare per nome nelle istituzioni, nelle vie, nelle scuole ma che non rimane mai fissa, ci sfugge come acqua tra le mani e ci scardina nel suo essere eterna da una parte ma scivolosa dall’altra. Come il lavoro di ogni giorno. Oscilla tra cose certe e cose da costruire giorno per giorno.
Quotidianità. Una Città sottile, da ripensare. Non si vede, ma si intravede. Ciò che facciamo ogni giorno si erge come differenza di idee che l’autore staglia dentro ai suoi consigli taglienti. In tal senso mi viene in mente il capitolo sulla scuola o quando parla di come conquistare la felicità attraverso i simboli della fiducia verso se stessi. Una città sottile, dicevamo, quasi trasparente come il marmo lavorato fino alla sua più profonda anima, come ci testimonia l’opera di Palmalisa Zantedeschi, un’artista veneta la cui la scelta di riportare la pietra nella sua trasparenza assoluta risulta essere la mossa vincente. Levigando ciò che conosciamo viene fuori qualcosa di altro, di diverso e di fortemente impattante. Forse qualcosa che avevamo sognato ma mai realizzato. Qualcosa che forse era latente.
Opera Palmalisa Zantadeschi
Questo libro si instrada in questi percorsi. Sperimentale, tradizionale e progressivo insieme. Ad esempio la scelta di non inserire le note a piè pagina, come dicono gli esperti, risulta essere una scelta decisa e profondamente legata alla possibilità che il lettore non debba essere distratto da nulla. Nemmeno un rimando bibliografico. Viene richiesta solo attenzione a quelle parole, guardarle negli occhi per cogliere appieno la capacità di generare un nuovo io che riconosce, in un periodo di così forte crisi economica ed etica, che non basta più l’appartenenza. Non basta più avere radici. Abbiamo bisogno di rimescolarsi con ciò che di più profondo è in noi ma si nasconde: la felicità.
Partendo da questa sappiamo riconoscere il nostro nome, la tranquillità d’animo e siamo più pronti ad aprirci a nuove strade che forse ci possono nascondere anche più successo. Se questo libro deve avere un senso lo possiamo ritrovare proprio in questo. Una novità che non è sperare in una moneta fissa e corrente in tasca senza sforzi, ma una riconquista necessaria che è capace di non confonderci le idee, ma di farci venire delle idee e di farci stare bene con ciò che chiamiamo io e mondo.
L’autore descrive appunto questa città come sottile crocevia di attese e risposte. Come descrive tale città il Banco del Mutuo Soccorso, che ha scritto anche una canzone con questo titolo, possiamo chiudere proprio così:
Sottile non città che reggi tutto su niente:
ogni retta poggia su se stessa,
ogni curva su se stessa,
assurdi equilibri spostati.
Luci opache le tue rare stelle,
il tuo sole è spirato.
Spirato il sole della fiducia senza crescita e speranza, riappare il sole
della fiducia verso il sorriso e si aprono le tende della sottigliezza, leggerezza
e passione per vivere meglio. Non banale!